Le immagini di civili ucraini armati di fucili e molotov hanno fatto il giro del mondo, ricordando ad ognuno di noi che il sacrificio individuale è una delle (tragiche) poste in gioco in caso di guerra.
I dati raccolti con l’indagine WVS-EVS dagli anni Ottanta ad oggi in circa settanta Paesi mostrano un progressivo declino del numero di persone disponibili a combattere per difendere il proprio Paese. Una possibile spiegazione, illustrata da Inglehart e colleghi, è che società sempre più ricche e istruite generano individui che vogliono vivere la propria vita il più a lungo possibile, al meglio delle proprie possibilità e scegliendo liberamente come viverla.
In questo quadro, sostenuto dai processi di secolarizzazione e individualizzazione, il patto tra individuo e società si muove su binari che non contemplano il sacrificio individuale. In generale, la disponibilità a combattere diminuisce man mano che la libertà e l’autonomia dei singoli sono considerati valori non negoziabili. A livello aggregato i dati confermano questa tendenza, anche se si osservano diversi disallineamenti dovuti ad effetti contestuali. Ad esempio, i Paesi che hanno subito pesanti perdite durante la Seconda Guerra Mondiale (e l’Italia fra questi) mostrano un livello di disponibilità al sacrificio più basso rispetto a quello che ci aspetteremmo, se ci basassimo solo sul tipo di orientamenti valoriali diffusi nella società.
In Italia, circa una persona su due sarebbe disposta a combattere per il proprio Paese
Nel 2018 metà degli uomini italiani (51%) e più di un terzo delle donne italiane (38%) hanno dichiarato che, nel malaugurato caso in cui scoppiasse una guerra, sarebbe disponibile a combattere (dati WVS-EVS). Si tratta di una disponibilità verbale e del tutto speculativa, eppure utile per farsi una idea circa le reazioni dell’opinione pubblica nel caso di una chiamata alle armi. Nel complesso, la quota di persone disponibili a combattere si assesta intorno al 46%. La disponibilità maggiore si registra nelle regioni del Nord-Est (52%), area del Paese che oltre alle due guerre mondiali, ha vissuto da vicino anche le tensioni della Guerra fredda (Figura 1).

Pochi o tanti? Il confronto con gli altri Paesi
Poco meno di un italiano su due si dichiara pronto a combattere in caso di guerra. Una percentuale che, sebbene possa sembrare piuttosto alta, colloca l’Italia tra i Paesi con il più basso tasso di disponibilità al sacrificio individuale in nome del proprio Paese (Figura 2). Si tratta di un dato che accomuna tutti i Paesi sconfitti nella Seconda Guerra mondiale. In Italia, però, in controtendenza rispetto a quanto è avvenuto in Germania, Austria e Giappone, si è registrato nel tempo un aumento della percentuale di persone disposte a combattere. Rispetto alla rilevazione EVS del 1981, l’incremento è di circa 10 punti percentuali.

Orgoglio nazionale, ideologia politica e disponibilità a combattere
Quanto conta ciò che sta sull’altro piatto della bilancia? La disponibilità a combattere, infatti, si forma anche sulla base dell’importanza attribuita a quel collettivo – il Paese, la Patria, lo Stato Nazione (li uso qui come sinonimi, pur sapendo di semplificare) – che si è chiamati a difendere. Più quel collettivo fornisce risorse materiali e simboliche per la costruzione della propria identità sociale, più alta sarà la disponibilità a combattere per salvaguardarlo, anche a costo della propria vita.
I dati confermano la forza del legame tra identità nazionale e disponibilità al sacrificio individuale. Nel 2019 (WVS/EVS), il 58% di chi si dichiara “molto” orgoglioso di essere italiano sarebbe pronto a combattere per il proprio Paese, mentre la quota scende al 35% tra chi si dichiara poco/per nulla orgoglioso. In modo non dissimile, la disponibilità a combattere passa dal 54% di chi si dichiara “molto” attaccato all’Italia al 25% di chi non lo è affatto.
La difesa della patria, l’orgoglio nazionale e la giustificazione della guerra come strumento di risoluzione dei conflitti sono argomenti che si ritrovano più facilmente a destra dello spazio ideologico. Almeno a livello di discorso pubblico e mobilitazione politica. A livello individuale il quadro appare meno scontato. Sebbene siano soprattutto le persone che si definiscono di destra a dichiarare la propria disponibilità a combattere per il Paese (58%) e a sentirsi particolarmente orgogliosi di essere italiani (45%), le differenze più marcate emergono più dal confronto con chi non si colloca politicamente che da quello con le persone di sinistra (Figura 3).

Per approfondire:
P. Segatti, S. Guglielmi, Pro patria mori? La disponibilità (verbale) a combattere per il proprio paese (2020). In: Come cambiano gli italiani: valori e atteggiamenti dagli anni Ottanta a oggi [a cura di] F. Biolcati, G. Rovati, P. Segatti. Prima edizione. Il mulino.
Il capitolo fornisce un quadro di insieme della disponibilità a combattere degli italiani mostrandone l’evoluzione aggregata dal 1981 in poi e comparandola con quanto è accaduto in altri paesi europei. Successivamente esplora le relazioni a livello individuale tra la disponibilità a combattere e tre insiemi di atteggiamenti individuali (orientamenti di valore, ideologici e identitari) nelle quattro rilevazioni EVS in cui la domanda sulla disponibilità a combattere è stata inclusa. Infine analizza come varia all’interno delle coorti di nascita la disponibilità a combattere per la patria, assumendo che ciascuna di esse abbia dovuto confrontarsi con diversi dispositivi istituzionali relativi al dovere di difendere la patria.
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