Madri e lavoratrici? Gli effetti della maternità sul lavoro femminile in Italia e in Europa

By Francesca Bianchi, Ginevra Franceschini e Erica Zadra

Corso di “Analisi dei Dati”, Comunicazione pubblica e d’impresa (COM), 2021-2022, Università degli Studi di Milano. Tutor: Francesco Molteni, Dominik Balazka

Introduzione

Il divario di genere nell’ambiente lavorativo è un fenomeno che persiste in molte parti del mondo, ma il fatto di essere genitori può cambiare ulteriormente la vita professionale della donna rispetto a quella dell’uomo? Qual è lo scenario in Italia e nel resto d’Europa? Essere una madre ha un’influenza sulle ore lavorative settimanali?

Essere madre in Svezia o in Italia è la stessa cosa?

Partendo da uno sguardo generale sull’Unione Europea, si osserva come nel 2018 il tasso di occupazione della popolazione di età compresa tra i 20 e i 64 anni sia pari a 73,1%, presentando un divario di genere ancora molto evidente (Eurostat, 2019). Nonostante ci sia stato un miglioramento e una costante riduzione del divario di genere negli anni (passato da 17,3% nel 2002 a 11,6% nel 2018 (Eurostat, 2019)), gli uomini superano ancora le donne in tutti gli Stati membri.

In questo panorama l’Italia si classifica in una delle posizioni peggiori, presentando un tasso di occupazione piuttosto basso, molto al di sotto della media europea, pari soltanto al 53,1% per le donne e al 72,9% per gli uomini. Dunque, anche in seguito ad un’evoluzione positiva della situazione per le donne, si riscontrano ancora grandi differenze di genere e problematiche nel mondo del lavoro, differenze che si possono accentuare maggiormente con la presenza di figli.

Utilizzando i dati della European Social Survey (ESS), si evidenzia proprio come per le donne dei paesi europei esista una significativa differenza di ore lavorative settimanali legata all’essere una madre oppure no e come questa lettura è ben evidente se si guarda al caso italiano. Analizzando il grafico (Figura 1) risulta chiaro come le donne italiane presentano il più basso numero di ore lavorate settimanalmente, sia con figli che senza, rispettivamente pari a 24.7 e 28.7 ore. Questo dato è coerente col fatto che nel nostro Paese una grande percentuale di donne decide spesso di stare a casa, o si ritrova in qualche modo costretta a prendere questa decisione, per occuparsi della propria famiglia. Nel 2016, infatti, erano 7 milioni 338 mila le donne che si dichiaravano casalinghe e poco più della metà di queste non aveva mai svolto un’attività lavorativa retribuita nel corso della propria vita (Istat, 2017).

Spostando invece lo sguardo agli altri paesi europei, si vede come nella maggior parte di quelli mediterranei e continentali permangono queste significative differenze delle ore lavorative settimanali tra le donne con e senza figli e in alcuni casi è evidente come questo divario sia molto accentuato, come ad esempio in Svizzera (36,1 ore senza figli e 26,5 ore con figli), in Gran Bretagna (37.5 e 29.3), Austria (38,3 e 32,6) e Irlanda (35 e 29,4). La Repubblica Ceca invece risulta essere lo stato con i valori di ore lavorative più alti in entrambi i casi (41.8 e 41.4).

In generale, dunque, sembra esistere una relazione inversa tra le ore lavorative femminili e la presenza di figli: con uno o più figli le donne sembrano lavorare di meno.

Emergono però anche dei casi in controtendenza, rappresentati soprattutto dai paesi scandinavi, dove, in generale, la situazione lavorativa è migliore e dove il welfare si coniuga perfettamente con un’economia dinamica e in crescita. In particolare, si deve evidenziare il caso della Svezia che presenta il tasso di occupazione più alto (82,6%) a livello europeo, essendo inoltre la quarta nazione dal punto di vista della qualità dei diritti del lavoro femminile secondo il Global Gender Gap Index. Le politiche sociali diverse e gli investimenti mirati (ad esempio, la legge svedese prevede che ci siano, su 480 ore, ben 60 giorni di congedo parentale per ciascuno dei due genitori) consentono alle donne neo-mamme di cambiare tranquillamente tipo di impiego o orario di lavoro; le donne che lavorano e hanno figli sono il 72%, in confronto al 50% dell’Italia. Anche il grafico evidenzia questa situazione, mostrando che le donne svedesi con figli dichiarano di lavorare addirittura più ore rispetto a quelle senza figli. Nei paesi del nord quindi, Svezia in primis, ma anche Norvegia, Islanda e Finlandia, quasi nessuna madre si sente costretta a lasciare il lavoro.

Un altro caso interessante è quello dei paesi ex sovietici, nei quali le donne sembrano lavorare per molte ore nell’arco di una settimana, tra le 35 e le 40 ore, con un effetto della presenza di figli meno rilevante rispetto ad altri stati europei. Questo potrebbe trovare una spiegazione nella politica del periodo comunista, durante il quale il lavoro femminile era fortemente incoraggiato da varie misure governative, tra le quali l’assistenza all’infanzia, e quindi essere una madre casalinga non era in linea con la politica dei partiti (Gauthier, Erney & Bartova, 2015).

Figura 1: Ore lavorative settimanali delle donne, senza figli e con figli, nei diversi paesi europei nel 2018 (Dati ESS)

Conciliare figli e lavoro in Italia: una sfida ancora troppo grande per le donne

Spostando il focus della ricerca sull’Italia, e soprattutto adottando una prospettiva longitudinale (analizzando gli anni 2002, 2012, 2016 e 2018), si conferma l’ampia differenza di genere: tendenzialmente, gli uomini lavorano dalle 35 ore in su, mentre le donne superano di poco le 30 ore (Figura 2). Quindi, non solo gli uomini lavorano di più rispetto alle donne, ma è interessante osservare come la presenza dei figli determini situazioni molto diverse nei due generi.

Le donne sono estremamente penalizzate e la presenza dei figli influisce negativamente sulle ore lavorative, riducendole, andando a toccare negli anni 2002, 2016 e 2018, dei picchi decisamente negativi (appena 25 ore lavorative settimanali di media).

Ciò accade principalmente per due motivi: da un lato i settori che permettono una conciliazione tra lavoro e famiglia sono piuttosto rari, dall’altra continua ad esistere una resistenza di tipo “culturale”, che ancora oggi porta a identificare determinate professioni come maschili o femminili, sfavorendo anche in questo modo le donne. Basti osservare che la percentuale di donne italiane che non hanno mai lavorato nella loro vita, per badare alla cura dei figli, corrisponde all’11% della popolazione totale (Istat, 2017).

È di circa otto ore la differenza delle ore lavorative settimanali tra le donne con e senza figli: una differenza decisamente evidente. Per quanto riguarda gli uomini invece, non solo esiste una differenza nettamente minore tra chi ha e chi non ha figli, ma la situazione che si presenta è completamente ribaltata: i padri lavorano settimanalmente più ore. Ma qual è il reale motivo di questa differenza? Probabilmente ciò è dovuto da una parte al modello del Welfare State italiano, un modello che viene definito familista (Esping-Andersen, 1999), in cui la famiglia ha l’onere e il dovere di soddisfare i bisogni dei propri membri; dall’altra invece, sappiamo come la tradizione culturale italiana, fortemente radicata, identifichi da sempre nella donna la figura maggiormente dedita alla cura della famiglia e dei figli.

È interessante osservare invece come nel resto dell’Europa, in particolare al nord, i modelli dominanti siano tutti de-familisti, ovvero caratterizzati da una maggiore tutela da parte dello Stato dei bisogni delle persone, indipendentemente da quelle che sono le relazioni familiari.

Può saltare all’occhio un picco positivo riscontrabile in tutti e due i grafici attorno all’anno 2012. Ciò può essere dovuto ad una parziale fase di ripresa economica iniziata dopo la crisi del 2008, per poi cedere però il passo all’avvio di una nuova diminuzione, per quanto possibile ancora più drastica e negativa, determinando una frenata della domanda di lavoro e di conseguenza una diminuzione delle ore lavorative. Questo valore positivo deve quindi essere considerato come un rimbalzo statistico al crollo avvenuto nel 2008, senza però segnare una completa inversione di tendenza o un miglioramento delle condizioni lavorative, come invece è accaduto in altri paesi.

Figura 2: Ore lavorative settimanali di donne e uomini in Italia, negli anni 2002, 2012, 2016 e 2018 (Dati ESS)

Conclusioni

Tutti i dati forniti in questo articolo rivelano quindi una triste verità: ancora oggi le differenze di genere esistono e persistono, soprattutto nel contesto lavorativo.

L’occupazione femminile negli ultimi anni è sicuramente aumentata, e sarebbe quindi sbagliato non riconoscere i progressi, perché questi ci sono stati. La strada è però ancora lunga: è chiaramente troppo presto infatti per poter parlare di parità, soprattutto se i soggetti in questione sono le madri. Quello che emerge chiaramente è come la presenza di figli sia tuttora un fattore di svantaggio per le madri di tutta Europa. Nonostante ci siano paesi che mostrano delle eccezioni (ad esempio i paesi scandinavi), la tendenza generale vede una limitata quantità di ore lavorative settimanali, che raggiunge nel caso dell’Italia dei numeri davvero bassi.

Cambieranno mai davvero le cose? Sicuramente lo Stato può garantire più tutele nei confronti delle madri lavoratrici, ma fino a che punto può influire una tradizione che si presenta ancora così tanto patriarcale?

References

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